lunedì 19 ottobre 2020

 IL GOVERNO CONTE CI VUOLE DOCILI E RASSEGNATI

CONFINDUSTRIA CI VUOLE SCHIAVI E AFFAMATI
IL 24 OTTOBRE TUTTI IN PIAZZA
Mentre in tutta Europa dilaga la seconda ondata pandemica, nel nostro paese il governo e le amministrazioni locali si trovano a fronteggiare la nuova emergenza con un sistema sanitario disastrato come in primavera: pochissime nuove risorse, strutture fatiscenti, gravi carenze d'organico e un personale medico-infermieristico che a dispetto delle fatiche sfiancanti del lockdown continua ad essere umiliato dal mancato rinnovo del CCNL di categoria e da livelli salariali da fame.
I padroni, con la complicità di governo ed istituzioni locali, la scorsa primavera hanno contribuito a trasformare la pandemia in mattanza negli ospedali e nelle RSA, in primis in Lombardia, tenendo aperte migliaia di fabbriche senza alcun riguardo per la sicurezza e la salute di lavoratori e lavoratrici. Ora, sempre in nome del profitto, minacciano barricate per impedire stringenti misure di sicurezza, nonostante il rischio di un collasso degli ospedali su scala nazionale: uno scenario reso ancor più drammatico al sud, che stavolta è pienamente coinvolto dalla pandemia.
Mentre Conte, il PD e i M5Stelle hanno mantenuto l'impianto razzista, repressivo e antioperaio dei decreti sicurezza di Salvini (limitandosi a qualche modifica irrisoria e di facciata), l'esecutivo è sempre più ostaggio dell'arroganza di Bonomi e di Confindustria, delle sue richieste e delle sue pretese, a partire dal mancato rinnovo della moratoria sui licenziamenti a fine anno, nonostante il proseguo dell’emergenza.
I padroni si sentono talmente forti da far saltare i tavoli di trattativa sui rinnovi contrattuali, come dimostra il caso eclatante del CCNL metalmeccanici, con lo scopo dichiarato di ottenere dei contratti-farsa, senza alcun aumento salariale e con l'imposizione di forme sempre più brutali di precarietà e di sfruttamento.
Intanto, al di là delle chiacchiere e della propaganda, si pensa di destinare la gran parte dei fondi del Recovery Plan alle ristrutturazioni produttive necessarie al capitale per contrastare la crisi in corso dal 2008, a infrastrutture e grandi opere al servizio delle imprese o direttamente nelle tasche dei padroni sotto forma di sgravi e incentivi. Risorse che stravolgeranno sempre più i servizi universali (sanità, scuola, trasporti, assistenza), disarticolati da autonomie più o meno differenziate, e che andranno anche a incrementare le spese militari e i piani bellici (30 miliardi destinati alla difesa). Risorse che, con le condizionalità imposte dalla UE, saranno ripagate con nuove lacrime e nuovo sangue da lavoratori, lavoratrici e classi oppresse.
Senza una ripresa generale delle lotte e del protagonismo di lavoratori e lavoratrici, entro l'inverno assisteremo a un'ondata di licenziamenti, a un taglio dei salari e a un massacro sociale senza precedenti.
Per questo motivo lo scorso 27 settembre centinaia di lavoratori e delegati combattivi di diversa appartenenza categoriale e sindacale si sono incontrati a Bologna, con l'obbiettivo di tracciare una piattaforma di lotta e di mobilitazione capace di contrapporsi in maniera adeguata ai piani di macelleria sociale di padroni e governo, e di lanciare dal basso un percorso di mobilitazione che porti in tempi brevi a un vero sciopero generale.
Per il rinnovo immediato di tutti i CCNL scaduti, con forti aumenti salariali e forti disincentivi ai contratti precari e a termine;
No ai licenziamenti di massa; riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, salario medio garantito a disoccupati e precari e integrazione della Cig al 100%;
I costi della crisi sanitaria siano pagati da chi non ha mai pagato: patrimoniale sulle grandi ricchezze per rilanciare la sanità, la scuola pubblica, i trasporti e i servizi sociali;
Documenti, diritto d’asilo, regolarizzazione contrattuale e pieni diritti di cittadinanza per tutti i lavoratori immigrati, con l’abolizione dei decreti sicurezza (che reprimono anche dissenso e conflitto sociale).
Contro ogni autonomia differenziata, oggi rilanciata dal governo
Annullamento delle spese militari e riconversione di tutta la filiera dell’industria bellica e militare, a spese dello Stato e piena garanzia del lavoro;
Tutela piena della sicurezza sui luoghi di lavoro con nuovi e stringenti protocolli per la prevenzione del contagio da Covid 19, gestiti da comitati e rappresentanti eletti da lavoratori e lavoratrici.
24 ottobre
Manifestazioni e presidi di lotta in ogni città
ASSEMBLEA DELLE LAVORATRICI E DEI LAVORATORI COMBATTIVI

 Fiat Ottobre 1980

I media, il potere amano celebrare il finale dei 35 giorni di resistenza operaia contro il massacro sociale che la Fiat avviava, dando una svolta reazionaria all’insieme della società. Com’erano (e come sono) contenti di vedere sconfitta una classe operaia che per dieci lunghi anni ha sconvolto il mortifero ordine capitalistico, aprendo spazi incredibili a esperienze e organizzazioni rivoluzionarie. Loro amano tanto i 15.000 servi in cravatta, quei tristi e squallidi figuri che della sottomissione e del sadismo sociale fanno la propria esistenza. Quelli che strisciavano per le strade di Torino reclamando la libertà di lavorare, sulle spalle altrui e sui licenziamenti altrui. Ma non furono certo i soli, né i principali nemici degli operai. La sinistra istituzionale completava allora la propria integrazione al sistema dominante. Dietro al santino di Berlinguer, agitato ai cancelli, Piero Fassino e Giuliano Ferrara (massimi dirigenti del partito revisionista e accaniti controrivoluzionari) collaboravano attivamente con padroni, governo e questura in incontri segreti (che ammetteranno in seguito). Poverini, avevano anche un po' paura perché la classe operaia praticava pure la lotta armata. E d’altronde abbiamo visto in che fango borghese sono finiti, al servizio del peggior capitalismo di questi decenni.
Alcuni di noi parteciparono a quell’epica lotta e contemporaneamente allo scontro più generale
Ricordiamo che l’offensiva della Fiat è preceduta da altri attacchi che ne prepararono il terreno: i 61 licenziamenti politici nell’autunno’79, e lo smantellamento delle colonne guerrigliere delle Brigate Rosse e di Prima Linea a Torino in primavera; e ancora la strage alla stazione di Bologna, orchestrata dai servizi segreti della cupola Gelli, stratega fascio-democristiano del terrorismo di Stato contro l’insorgenza operaia. Ma lo scontro andrà avanti nei due anni seguenti, virulento. Non ci arrendemmo. Nonostante la sconfitta militare alla fine del 1982, militanti prigionieri e forze di classe hanno continuato a difendere le posizioni rivoluzionarie, pur nelle condizioni più difficili. Un filo rosso che non sono riusciti a spezzare. Quello che è successo in questi decenni semmai conferma la convinzione che una classe succube del “riformismo” e disarmata non vale niente e finisce nel supersfruttamento odierno. L’immagine di copertina non è del 1980 (non ci piace piangerci addosso), ma dell’occupazione della Fiat del marzo 1973, quando la classe operaia era forte perché praticava e rivendicava il diritto alla violenza e alla rivoluzione.
L'immagine può contenere: il seguente testo "4marzo 1973 L100 Settimatale politipo znngl 43 POTERE OP FRAIO Governo Soccorso ePCI Rosso apagina 2 pagina 2 All'Alfa di Arese a pagina7 SPECIALE LOTTE FIAT Guerra contro l lavoro: come si organizza totta Fiat un problema per @avanguardie Dalla lotta continua allaguerra di classe APA FASCISTI EOIZIA"
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 17 Ottobre 1961, Parigi.

Il Fronte di Liberazione Nazionale Algerino convoca una giornata di mobilitazione a Parigi, contando sulle decine di migliaia di operai che vivono ammassati nelle banlieues. Operai che sono la forza viva delle catene di montaggio, delle grandi fabbriche fordiste, e che esprimono anche identità di classe e anticoloniale. La Francia colonialista è sempre stata feroce, sanguinaria, e non sopporta una simile sfida nella sua capitale. La repressione è un atto di guerra interna: scatenate le orde in divisa, circa 200 manifestanti vengono bastonati, linciati e..gettati nella Senna. Un pogrom coloniale nel cuore della metropoli. Ancora settimane dopo verranno raccolti cadaveri a km di distanza lungo il fiume. Siccome erano principalmente algerini, venne alzato un muro di omertà e di isterismo antiterrorista, solo negli ultimi anni un governo francese riconobbe il crimine (per quello che contano certe parole..) E l’omertà del mondo politico borghese ben si spiega con lo schieramento unanime in difesa della “missione civilizzatrice del colonialismo”, con la tracotante pretesa di proprietà sui popoli africani, asiatici. Solo i comunisti (quelli coerenti, non certo tutto il PCF che si macchiò di complicità con il colonialismo) fecero fronte con le lotte dei popoli dominati, pagando spesso con la vita e con la propria criminalizzazione.

Ma ancora un fatto merita di essere ricordato. A capo della Prefettura di Parigi stava Maurice Papon.
Il classico alto funzionario dal passato fascista, bellamente riciclato nel nuovo regime “democratico”. Passato che non era semplice adesione ideologica, Papon era stato Prefetto alla città di Bordeaux, in piena guerra. E, in quanto tale, appose la sua firma ad alcuni convogli della morte verso i lager nazisti. In seguito alle ricerche compiute fu, molto tardivamente (anni 90), accertato che era corresponsabile delle retate e della deportazione di almeno 1.800 persone (resistenti, ebrei, fra cui centinaia di bambini). Ma com’era possibile che simili criminali la scampassero e si riciclassero così spudoratamente? Continuando a perpetrare lo stesso genere di crimini? La risposta la si può trovare proprio in un altro grande personaggio, mito delle democrazia borghese: Francois Mitterand. Grande illuminista, umanista, ecc. capace di manovrare politicamente per integrare anche le spinte più radicali (sua l’opera di recupero di buona parte dei “sessantottini” e delle loro istanze di rinnovamento) ma entro una coerente visione dello Stato borghese e imperialista: Mitterand fu ministro dell’Interno e pure di Giustizia lungo tutta la guerra d’ Algeria. Cioè gestì, coprì legalmente, contrassegnò, quotidianamente, le migliaia di torture e di esecuzioni lì perpetrate. Nell’entourage di Mitterand emerse poi anche un altro personaggio di continuità fra i due regimi - René Bousquet, un altro boia filonazista – e più in generale, appunto, l’osmosi e l’organico ricambio fra esponenti di potere che, pur in una discontinuità storica, si riconoscevano nello stesso sistema, e innanzitutto nelle esigenze controrivoluzionarie.
Naturalmente non è una specificità francese, sappiamo quanto qui in Italia non ci sia stata epurazione antifascista ma ben il contrario, e che un macellaio genocida dei popoli africani come il generalissimo Rodolfo Graziani sia vissuto beatamente nella sua villa.
Quando le verità su Papon emersero in modo ingestibile, la giustizia borghese diede gran prova di sé. I profluvi di indignazione degli ipocriti giornalisti e politicanti produssero una condanna (udite, udite) per “crimini contro l’umanità”. Il peggior reato immaginabile e sanzionabile. Risultato: 10 anni di condanna, di cui 3 scontati in carcere (si fa per dire). Anime pie si commossero per un povero novantenne in catene, e il Papon se ne uscì per qualche altro annetto arzillo.
Spesso negli ultimi anni la commemorazione del 17 ottobre 1961 viene associata, dal movimento di classe, alle attuali lotte antimperialiste, quella palestinese in particolare. E per la liberazione di uno suoi più eminenti esponenti, Georges Abdallah, prigioniero in Francia da 36 anni. Nei prossimi giorni ci sarà la grande manifestazione davanti al carcere di Lannemezan, in occasione dell’anniversario del suo arresto il 24 ottobre 1984. Ancora oggi la sua coerenza e fierezza rappresentano la lotta armata rivoluzionaria dei popoli contro il domino imperialista e la sua violenza terrorista.
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sabato 10 ottobre 2020

 


Indonesia, sommosse di massa contro leggi antioperaie


Diverse decine di migliaia di indonesiani hanno manifestato oggi, giovedì 8 ottobre, nelle principali città dell'arcipelago del sud-est asiatico e si sono scontrati con la polizia per protestare contro la nuova legislazione, denunciata da sindacati e attivisti ambientali. La polizia ha usato gas lacrimogeni nella capitale e ha effettuato più di mille arresti.
Circa 13.000 membri delle forze di sicurezza erano stati dispiegati nella capitale e nei dintorni per impedire l'arrivo di lavoratori e studenti che volevano manifestare davanti al palazzo presidenziale e al Parlamento

Ma, scontrandosi, i manifestanti hanno superato gli schieramenti polizieschi e si sono riversati nel centro della città. Non riuscendo a raggiungere il Parlamento, hanno devastato alcuni edifici governativi, dato fuoco a stazioni di polizia stradale e a fermate degli autobus. In molte altre città, i manifestanti hanno rivolto la loro rabbia contro i parlamenti locali, come a Surabaya, Bandung e Makassar.
L'Indonesia ha un codice del lavoro relativamente protettivo rispetto ad altri paesi asiatici, con salari minimi e
restrizioni per i licenziamenti. Il governo con la nuova legge
- denominata “legge omnibus” - mira a ridurre la burocrazia modificando dozzine di leggi esistenti che incidono sul diritto del lavoro, la
fiscalità e le norme ambientali, per favorire ulteriormente gli investimenti delle multinazionali, insomma ad aggravare ancor più le politiche neoliberiste, mentre il paese si prepara ad entrare in recessione.

Un movimento significativo nel cuore delle odierne più importanti aree industriali del mondo, come quella cinese e di tutti i paesi contigui, un movimento che influisce sui rapporti di forza globali fra proletariato e capitale. E che quindi, nonostante la distanza geografica, ci interessa direttamente.


Giusto ieri ricordavamo il genocidio anticomunista del settembre 1965, ecco che l’attualità riporta come, nonostante tutto, la lotta di classe abbia ripreso vigore. L’Indonesia divenne nei decenni seguenti un “paradiso per le multinazionali, per l’imperialismo occidentale” e un inferno di sfruttamento per la classe operaia. Come in buona parte dei paesi asiatici ma anche con il peso di quella tremenda repressione che distrusse il partito comunista e la sua notevole forza. Questa nuova lotta di classe creerà le condizioni per la ripresa del movimento comunista e di una prospettiva rivoluzionaria.


INDONESIA: UN MASSACRO DIMENTICATO

di Alex de Jong

La mattina del 30 settembre 1965, un piccolo gruppo di ufficiali dell’esercito e di membri del Partito Comunista Indonesiano (PKI) tentarono un colpo di stato contro i vertici dell’esercito indonesiano. Sei generali dell’esercito vennero uccisi, ma il colpo di stato fallì ed venne schiacciato dai leader militari sopravvissuti in pochi giorni. Insieme ad altre forze di destra, l’esercito, sotto il comando del Gen. Suharto e di Abdul Haris Nasution, si vendicarono.

Centinaia di migliaia di comunisti, veri e presunti, furono massacrati e venne installato un nuovo regime militare posto sotto Suharto.

Potenze occidentali come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e Paesi Bassi tollerarono e spesso sostennero attivamente i massacri.

La Giunta militare indonesiano una volta preso il controllo dei media, il 2 ottobre, li utilizzò  per diffondere la propria versione dei fatti. Nella versione della giunta, l’uccisione dei generali era stata la scintilla che ha fatto esplodere la rabbia popolare contro un partito odiato per la sua violenza, la sua indifferenza per la religione e la sua mancanza di patriottismo. I piani del PKI per una rivoluzione violenta e l’eliminazione di tutti coloro che si fossero opposti era stata fermata da un’ondata di rabbia popolare spontanea contro i comunisti traditori.

Per decenni, questa versione delle uccisioni di massa che avvennero nel periodo 1965-1966 venne rafforzata dalla propaganda di stato e riproposta a pappagallo da molti esperti occidentali che vedevano in questa eruzione “spontanea” in violenza omicida come una conferma delle proprie preesistenti idee razziste circa i fanatici e irrazionali “orientali”.

La ricerca storica ha demolito questa versione dei fatti. Il fallito colpo di stato non è stato un’iniziativa della PKI nel suo complesso, ma di un piccolo numero di capi del  PKI che lavoravano con alcuni ufficiali dell’esercito simpatizzanti e che volevano rimuovere diversi leader di destra dell’esercito – non cero per prendere il potere statale.

Il massacro che ne seguì fu sistematico, organizzata da politici e da milizie della destra nazionalista, da organizzazioni religiose e, soprattutto, dall’esercito indonesiano. Questa coalizione omicida ricevette il sostegno politico e materiale da parte delle potenze occidentali.

Pochi giorni dopo il colpo di stato, funzionari statunitensi e britannici cominciato a fare progetti per sfruttare la situazione politica. Il colpo di stato aveva offerto loro la possibilità di schiacciare il PKI, un partito che i funzionari occidentali temevano stesse avvicinando pericolosamente al potere statale.

Negli anni precedenti il colpo di stato, il PKI aveva cercato di affermarsi come il più fiero partito anti-imperialista del paese, mobilitando contro l’influenza del capitale straniero, soprattutto di quello olandese e britannico.

Contemporaneamente aveva sostenuto il presidente indonesiano Sukarno nella richiesta che l’Olanda lasciasse l’Irian Jaya (Papua Occidentale) all’Indonesia e nella sua campagna contro la Malesia, che veniva denunciata come strumento dell’imperialismo britannico.

Per un certo periodo questa strategia ebbe successo. Nelle elezioni parlamentari del 1955 – l’ultima prima che Sukarno adottasse il suo sistema autoritario di “democrazia guidata”  – il PKI emerse come il quarto più grande partito del paese con il 16,4 per cento dei voti. I membri del partito erano cresciuti da meno di ventimila nel 1954 a oltre 1,5 milioni.

Milioni di indonesiani vennero  organizzati nei sindacati alleati al PKI e nelle organizzazioni di massa di contadini, donne, studenti e altri gruppi.

Non era solo la crescita del PKI che aveva scatenato i campanelli d’allarme in Occidente. Alla fine del 1950, gli Stati Uniti appoggiarono la ribellioni di destra contro Sukarno, ma il progetto fallì quando furono sconfitti i ribelli.

Il sostegno americano ai suoi avversari spinse Sukarno più lontano dal blocco occidentale e danneggiò le relazioni degli Stati Uniti con la forza indonesiana di desta più potente: l’esercito.

Nel frattempo, il contributo dei comunisti alla lotta contro i ribelli portò ad un aumento della simpatia popolare e ad un crescente favore da parte di Sukarno.

All’inizio degli anni Sessanta, la PKI era il più grande partito comunista mondo al di fuori del blocco sovietico, e l’Indonesia era diventata il maggior beneficiario non appartenente al blocco di aiuti economici e militari sovietici.

Dopo il fallimento delle ribellioni regionali, gli Stati Uniti adottò una strategia diversa. Con l’aiuto di fondazioni filantropiche come la Ford e Rockefeller e istituzioni come la Banca mondiale, gli Stati Uniti restaurarono il suo rapporto con l’esercito indonesiano e il diritto del Paese, fornendo assistenza materiale e garantendo la formazione degli ufficiali dell’esercito e di intellettuali filo-occidentali.

Ma la capacità del governo degli Stati Uniti di influenzare la politica statale indonesiana in definitiva dipendeva dal presidente Sukarno.

Sukarno, il leader storico del movimento indipendentista indonesiano, era molto popolare ed essenzialmente governava per decreto. Non era un comunista, ma era un fervente anticolonialista che sognava una Indonesia potente, completamente indipendente in grado di giocare un ruolo importante sulla scena mondiale.

Sukarno si era sempre scontrato con le potenze occidentali – in particolare con il Regno Unito e gli Stati Uniti – che denunciava come neocolonialisti.

Nei primi mesi del 1965, l’Indonesia si ritirò dalle Nazioni Unite ed venne espulsa dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale.

Di conseguenza, i funzionari occidentali erano pessimisti circa la loro capacità di manipolare il panorama politico in Indonesia.

Nei primi mesi del 1965, l’ambasciatore olandese in Indonesia, ELC Schiff, disse in un colloquio con il ministro degli affari esteri, che tra i suoi colleghi era condivisa l’idea che Sukarno sarebbe rimasto leader del paese fino alla sua morte, e che “non era più possibile impedire all’Indonesia di scivolare verso sinistra”.

Gli Stati Uniti avevano deciso da allora che Sukarno non avrebbe accettato pressioni per abbandonare il PKI, e nell’agosto 1964 decisero di rovesciare Sukarno.

Questa decisione venne presa in accordo con i piani segreti dei funzionari britannici tesi a fomentare la guerra civile e la caduta del governo di Sukarno.

Il Regno Unito aveva costituito un “direttore di guerra politica contro l’Indonesia,” con sede a Singapore, e la CIA propose di espandere le proprie operazioni in Indonesia per includere  “operazioni segrete a sostegno ai gruppi anti-comunisti esistenti, operazioni legali campagne mediatiche, tra cui la possibilità di creare “black radio” (stazioni radiofoniche di propaganda), e l’azione politica all’interno delle istituzioni e delle organizzazioni indonesiani esistenti”.

L’aspettativa era che qualora Sukarno venisse rimosso, ne sarebbe seguita una lotta di potere tra il PKI e l’esercito. La leadership (in questa fase pro-USA) dell’Esercito era fiduciosa circa l’esito di questa lotta: in un incontro confidenziale con l’ambasciatore olandese, il Capo di Stato Maggiore Gen. Ahmad Yani (uno dei generali uccisi il 30 settembre), disse che l’esercito era “affidabile” e si stava preparando allo scontro qualora il presidente malato fosse morto.

Ma fino a quando Sukarno avesse protetto il PKI, schiacciare i comunisti sarebbe stato impossibile. L’Assistente Segretario di Stato britannico Edward Peck suggerì “ci sarebbe molto da dire per favorire un prematuro colpo di stato del PKI durante la vita di Sukarno.”

Il fallito colpo di stato diede a Peck ciò che voleva.

L’uccisione dei generali fu un vantaggio per la campagna di propaganda dell’esercito contro il PKI e, indirettamente, contro Sukarno. Il rifiuto di Sukarno di condannare o vietare il PKI, come la destra chiedeva dopo il golpe fallito, venne sfruttata dall’esercito per screditarlo.

Nei mesi successivi, Sukarno fu costretto a cedere sempre più potere all’esercito.

La teoria secondo cui la violenza fu un’improvvisa eruzione di rabbia popolare è smentita dalla sua graduale escalation. Dopo il fallito colpo di stato, l’esercito sostenne  manifestazioni anti-PKI fornendo trasporto e protezione, e circa una settimana dopo la morte dei generali, i manifestanti saccheggiarono gli uffici PKI mentre le forze di sicurezza stavano a guardare. Seguirono le case dei membri del PKI.

Le uccisioni di (presunti) membri e sostenitori del PKI non furono avviate fino a poche settimane dopo il tentativo di colpo di stato del 30 settembre: i massacri hanno avuto luogo a Java centrale alla fine di ottobre, poi a Java dell’est nel mese di novembre, seguita da Bali a dicembre. In ogni caso l’arrivo delle forze speciali, comandati dal Maggiore Gen. Sarwo Edhie, precedevano le uccisioni.

Molte vittime vennero arrestate da gruppi di miliziani sostenuti da forze speciali di Edhie. I prigionieri furono messi in campi di prigionia di fortuna in località remote e vennero spesso uccisi in gruppi, spesso con un colpo d’arma, accoltellati, o con i loro crani schiacciati con sassi. Gran parte delle uccisioni venne fatto dai giovani membri della milizia di gruppi come Ansor, l’ala giovanile del Nahdlatul Ulama, la più grande organizzazione musulmana del paese.

Ernst Utrecht, un sostenitore di sinistra di Sukarno ed ex parlamentare, stima che fino a cinquantamila indonesiani abbiano partecipato al massacro.

Dopo decenni di propaganda e di insabbiamenti, il numero delle vittime non può essere determinato con precisione. La maggior parte degli storici assumono il numero dei morti tra cinquecentomila e 1 milione, anche se Edhie stesso ha sostenuto che il numero era di 3 milioni.

Le potenze occidentali sostennero l’esercito nella sua campagna contro il PKI.

Il 17 ottobre, la CIA preoccupato che l’esercito non fosse in grado di andare “fino in fondo nella lotta contro coloro che erano direttamente coinvolti nell’omicidio dei generali permettendo a Sukarno di riprendersi gran parte del suo potere”.

Per evitare questo la CIA diede una liste con i nomi di cinque mila membri del PKI ai generali e organizzò la consegna di armi e di denaro per l’esercito.

L’ambasciata degli Stati Uniti fornì le proprie liste con duemila nomi. In un incontro con funzionari britannici, il Gen. Sukendro chiesto aiuto all’esercito per “consolidare la propria posizione”.

Il verbale della riunione riportava sulla “strategia dell’esercito” e contro il PKI e su come “le considerazioni [erano] state fatte per incontrare il favore per le armi dei nazionalisti e degli elementi religiosi.”

Anche altre potenze occidentali aiutarono la strage: il servizio segreto estero della Germania Ovest consegnò armi e attrezzature di comunicazione per un valore DM300,000, mentre il rifugiato indonesiano Jusuf Osman Helmi ha riferito che la Svezia firmò un contratto con Suharto e Nasution “per un acquisto di emergenza del valore di 10 milioni dollari per armi leggere e munizioni “nel dicembre del 1965.

L’Ambasciatore olandese Schiff riferì l’8 ottobre, che l’esercito stava conducendo una “intensiva campagna diffamatoria” contro il PKI, e concluse che la situazione era “la migliore – e forse ultima – chance dell’esercito per affermarsi politicamente”

Entro la fine del mese di ottobre, l’ambasciata Usa ricevette segnalazioni di violenze contro le masse di sostenitori PKI a Java Est, Centrale e Ovest.

L’ambasciatore degli Stati Uniti ha rilevato che l’esercito si stava “muovendo inesorabilmente nel sterminare il PKI.” Un mese più tardi Schiff ha riferito che interi “kampong” (villaggi) erano stati annientati, presumibilmente a causa di faide locali.

Lo spargimento di sangue raggiunse il suo obiettivo di distruggere la sinistra indonesiana.

Nel mese di aprile del 1966, il ministro degli affari esteri Schiff, il futuro segretario generale della Nato Joseph Luns, osservarono “il colpo inferto ai comunisti (da cui non sono suscettibili di recuperare nel prossimo futuro).” Nel luglio del 1966, il primo ministro australiano Harold Holt sottolineò in un discorso a New York, che “da 50.000 a 1.000.000 di simpatizzanti comunisti eliminati, penso che sia lecito ritenere che abbia avuto luogo un cambio di direzione.”

Qualche settimana prima il Dipartimento di Stato americano aveva gioito che, a causa dell’uccisione “fino a 300.000 comunisti” e con un altro 1,6 milioni di comunisti indonesiani che hanno rinunciato alla loro adesione, il numero dei comunisti nei paesi non appartenenti al blocco sovietico era sceso del 42 per cento in un anno.

L’aiuto che i funzionari occidentali hanno dato all’esercito tra la fine del 1965 e l’inizio del 1966 è stato un segnale politico fondamentale per nuovi governanti in Indonesia che gli Stati Uniti e i suoi alleati erano disposti de facto a sostenerli. Questo sostegno è stato fondamentale per il regime nascente perché l’economia indonesiana era in crisi, e il capitale occidentale si era dimostrato riluttante ad investire in Indonesia dopo l’acquisizione da parte di Sukarno di società inglesi e olandesi e la richiesta di espropriare capitali occidentali.

I militari sfruttarono la crisi economica per minare quello che rimaneva del potere di Sukarno – società britanniche e statunitensi come Caltex, Goodyear, e US Rubber fecero un accordo con l’esercito per incanalare i ricavi aziendali in conti bancari anonimi, privando lo stato indonesiano di una fonte importante di valuta estera, oltre che paralizzare Sukarno.

Allo stesso tempo, l’esercito si affrettò a placare i suoi sostenitori occidentali.

Nel mese di dicembre, Suharto rassicurò le compagnie petrolifere occidentali che l’esercito “non avrebbe condotto mosse precipitose” contro di loro, e pochi giorni dopo Sukarno consegnò ufficialmente il potere a Suharto il 11 marzo 1966, e venne permesso alla società statunitense mineraria Freeport di rientrare nel paese e poter estrarre le ricche risorse minerarie in Irian Jaya.

Una nuova legge sugli investimenti esteri concesse condizioni estremamente favorevoli per capitale estero e venne elaborata in stretta collaborazione con il FMI, e a partire dal 1967 il nuovo regime ricevette 450 milioni dollari ogni anno dal Gruppo intergovernativo sul Indonesia (IGGI).

Il IGGI comprendeva la Banca asiatica di sviluppo, il Fondo monetario internazionale, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, la Banca mondiale, Australia, Belgio, Gran Bretagna, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Nuova Zelanda, Svizzera e Stati Uniti, e venne presieduta da Paesi Bassi. La presidenza olandese era stata suggerita dai funzionari degli Stati Uniti che speravano di distogliere l’attenzione dal coinvolgimento degli Stati Uniti (e dal Giappone) nell’affare.

Grandi città dell’Indonesia vennero ritenute prioritarie come beneficiarie degli aiuti per stabilizzare la situazione politica. Nel 1968 la dittatura di Suharto era comodamente costituita e impegnata in politiche economiche pro-occidentali.

Il governo indonesiano si rifiuta ancora oggi di ammettere che le uccisioni erano state una sistematica violazioni dei diritti umani. Nessuno è mai stato ritenuto responsabile per le centinaia di migliaia di morti, e non una sola delle tante conosciute fosse comuni sono state completamente scavate per dare alle vittime una degna sepoltura.

E nel mese di aprile è stato annunciato che Sarwo Edhie sarebbe stato dichiarato  un “eroe nazionale” per le sue azioni.

Al di là di questo, i massacri raggiunsero il loro obiettivo. Fino ad oggi, la sinistra indonesiana non si è ancora ripresa.



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