Contro la soluzione politica-

I dis/soluzionisti
Qui di seguito una breve premessa e alcuni materiali sulla questione della “soluzione politica”. La presenza in ambiti di movimento di ex militanti delle organizzazioni armate del ciclo di lotte degli anni 70, che a suo tempo hanno dichiarato chiusa quell’esperienza e beneficiato per questo di notevoli sconti di pena, pone un serio problema. La loro legittimazione, in quanto parte di quella storia, tra giovani compagni all’oscuro di quelle vicende richiede una riflessione. Le ragioni che hanno portato alla resa questi militanti, e gli effetti negativi sui percorsi di costruzione di una prospettiva rivoluzionaria pesano ancora oggi. Se possiamo fare un parallelismo, con tutte le dovute differenze e proporzioni, lo troviamo in quella zona grigia dell’ “antagonismo sociale” dove certe tendenze opportuniste si esplicitano nel prendere pubblicamente le distaze da forme di organizzazione e pratiche di lotta non compatibili con le loro delimitazioni legaliste e paraistituzionali. Contribuendo in questo modo alla criminalizzazione di determinate pratiche di lotta e alla repressione dei compagni colpevoli di non dialettizzarsi con le regole dell’ordine borghese. Daltra parte, accettare il gioco del nemico, operando sul suo terreno, con le sue regole, è il modo per andare incontro ad una sconfitta certa. O se si vuole, partire con l’idea di un cambio di campo, giustificandolo con l’affermazione che “si è perso ma ci siamo battuti”. E’ un modo, a partire da una resa, da una capitolazione dichiarata, per legittimare il proprio ingresso negli ambiti politici istituzionali predisposti dal potere, a dimostrazione che nella bella democrazia anche le voci critiche hanno il loro spazio. Lo spazio riservato a quelle componenti a cui viene affidato il compito di narcotizzare la conflittualità sociale, di ingabbiarla in percorsi illusori di fantomatiche vie verso la trasformazione, per via istituzionale e riformista, dello stato di cose presenti.

Tratto da “Con ogni mezzo necessario” di Paola Staccioli e Alfredo Davanzo febbraio 2018
Nel settembre dell’88, a seguito dello smantellamento delle strutture operanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente (BR-PCC), un autorevole gruppo di prigionieri/e, ex esponenti di primo piano delle Brigate Rosse e della loro storia complessiva, dichiarano definitivamente conclusa quella storia e quell’Organizzazione. Una chiusura molto pesante e condizionante rispetto a tutto il grande ciclo internazionale avviato dal’68”. Ciclo che, nonostante le sconfitte e il riflusso, ha marcato i nuovi orizzonti per i movimenti trasformativi, presenti e futuri. La ricchezza delle istanze di liberazione in quel ciclo, e l’intensità dello scontro prodotto, in rabbiosa ricerca di vie, percorsi e progetti, per rompere infine il sistema di potere, sono state tali da costringere l’insieme delle formazioni economico-sociali e relative strutture statali ad evolvere, integrando, in parte, tali spinte; reprimendole e disgregandole invece nel loro nocciolo antagonista e sovversivo. L’opera di disgregazione per linee interne si è rivelata particolarmente subdola ed efficace, trasformando lo sguardo autocritico, l’analisi e il bilancio (fondamentali per riuscire a superare errori e impasse politici) in strumenti disfattisti e di compromesso con il potere. Dalla grande ondata della “dissociazione” a quest’ultima versione, più raffinata e non meno dannosa, che invoca una “soluzione politica” allo Stato. A parte l’arrogante pretesa di proprietà (accampata da questi ex protagonisti arresi) e quindi di chiusura, su un ciclo di lotte, questa “soluzione” estende i suoi effetti ben oltre il passato. Perché il pegno, l’impegno, imposti da qualsiasi Stato che accetti di “negoziare” tali proposte sono sempre categorici: rinuncia e capitolazione, disarmo! In tutti i sensi. Già i termini ne indicano tutta l’ambiguità e falsità: come se la lotta rivoluzionaria, fino ad allora praticata non fosse politica ma principalmente militare (assecondando cosi la vulgata del potere sul “terrorismo”). E poi, quale soluzione è mai possibile per chi ha compreso che questo sistema si può solo abbattere? Al di fuori del processo rivoluzionario, per quanto difficile e mal ridotto in certe fasi, c’è solo resa e capitolazione. E così è stato per i “soluzionisti”, malgrado il prestigio dei loro nomi (fra i massimi protagonisti della storia delle Brigate Rosse). Tant’è che lo Stato ha premiato questa scelta, concedendo rapidamente l’accesso a vari benefici di legge. Cioè non solo la già grave consegna di armi e liquidazione delle strutture, ma il rifluire su posizioni ideologiche politiche disfattiste; lo Stato, magnanimo, concede a quel punto ai prostrati ex rivoluzionari i loro riferimenti ideologici generici, ma devitalizzati di ogni coerenza e autenticità. I cambiamenti di fase, di condizioni oggettive e soggettive non hanno mai invalidato le ragioni e le possibilità rivoluzionarie. Tanto più che, è ormai di evidenza eclatante, il capitalismo sprofonda nella sua spirale distruttiva e ferocemente antisociale. Questa sì di portata storica, universale! E di fronte a tali condizioni, a tale contesto, che senso ha predicare “la fine di un ciclo”, “la non riproponibilità della lotta rivoluzionaria”? La battaglia politico-ideologica attorno agli “anni 70”, attorno alla sua espressione rivoluzionaria più conseguente – e cioè l’assunzione della lotta armata e della tendenza alla guerra di classe, come sbocco inevitabile e necessario per le istanze di liberazione sociale – è ancora molto viva. La si misura nella reattività scomposta della classe dominante a tutto ciò che tocchi questo nervo scoperto; la si misuranell’involuzione autoritario-repressiva che, non giustificabile rispetto ai bassi livelli dell’antagonismo attuale (e ormai dagli anni 90), si pone, con finalità preventiva, di impedire qualsiasi dinamica proletaria di ricomposizione e organizzazione di tipo rivoluzionario. E, a parte le caratteristiche specifiche per l’Italia anni 70, si tratta di sviluppi e politiche generali, comuni a tutti i Paesi. Basti guardare situazioni come quelle di Turchia e Kurdistan, Colombia e Venezuela: la violenza reazionaria non ha più limiti, e sempre gli Stati si pongono l’obiettivo capitale di disarmare i movimenti proletari, di ricondurli all’ovile istituzionale. Ciò che non porrà fine, per contro, alla loro violenza, alla violenza della classe dominante. La ridurrà quantitativamente, forse, ma essa continuerà a imperversare come terrorismo preventivo.
QUALE «CICLO STORICO» SI E' CHIUSO ? Carcere di Cuneo Maggio 87. Domenico Delli Veneri, Sandro Padula, Remo Pancelli
Da diverse parti sentiamo dire che un «ciclo storico» avrebbe esaurito il suo corso, che occorre riflettere sul recente passato ed infine trovare una «soluzione» al problema dei prigionieri politici per contribuire alla pacificazione della società italiana. Rispetto a tali «teorizzazioni», visto che non sono per niente «neutrali», diventa sempre più urgente sviluppare una critica di segno rivoluzionario e noi, come compagni prigionieri, con questo breve scritto intendiamo soltanto contribuire ad essa.[.....] Per comprendere appieno quale sia la «posta in gioco», bisognerebbe prima di tutto essere consapevoli dei ritardi e dei limiti con cui, da parte dell'intera sinistra di classe, è stata affrontata la complessa tematica culturale e politica che la controffensiva della grande borghesia, scatenatasi soprattutto a partire dai primi anni '80, è andata imponendo nei posti di lavoro e nella società nel suo insieme. Ritardi e limiti resi ancora più gravi dalla contraddittorietà con cui è stata affrontata la critica alla legislazione d'emergenza ed alla giustizia premiale. Lo stato, dopo aver usato «pentiti» e «dissociati», ricerca ora nuovi e più sofisticati strumenti per spazzare via qualsiasi progetto rivoluzionario dal nostro paese. Non a caso è stata la DC a sollecitare la discussione del problema dei prigionieri politici esclusi dalle precedenti misure di giustizia premiale e, non per niente, è soprattutto questo partito che, dopo aver lasciato trapelare una precisa proposta di «soluzione politica» (la quale prevede determinate e differenziate riduzioni di pena), strumentalizza apertamente un desiderio di libertà per trasformarlo nella resa ai valori ed alla cultura del blocco sociale dominante egemonizzato dalla grande borghesia. Oggi le iniziative della DC sono quelle più scaltre all'interno di un più generale indirizzo politico, fatto proprio dall'intero «sistema dei partiti», che persegue l'obiettivo di ingabbiare ogni teoria-prassi di trasformazione sociale nell'ambito dei criteri di compatibilità rispetto alle istituzioni dominanti. Le mosse democristiane, al di là delle cortine fumogene, sono addirittura giunte al punto di ricercare l'avallo dei prigionieri politici ad un processo di pacificazione che lo stato gestirebbe per intensificare l'attacco alle forze rivoluzionarie ed a tutte le forme di autodeterminazione dei movimenti di lotta. Del resto è già iniziato l'uso strumentale del problema dei prigionieri politici negli scontri interni al «mondo dei partiti» ed agli apparati istituzionali, come è dimostrato senza ombra di dubbio dalle polemiche riguardanti la presunta esistenza di un filmato sulla prigionia di Moro. Inoltre è già incominciata una nuova ed estesa campagna di disinformazione e propaganda controrivoluzionaria che cerca di mettere in contrapposizione le «vecchie» alle «nuove» BR. A tale scopo i mass-media diffondono notizie secondo cui le «vecchie» BR sarebbero rappresentate esclusivamente dagli ex militanti disposti al «dialogo di pacificazione», mentre le «nuove» BR sarebbero, tanto per cambiare, dei mercenari al servizio di potenze oscure, dei trafficanti di droga, degli asociali oppure dei terroristi simili agli stragisti neri. Di fronte a questa campagna piena di bugie, da un lato è necessario precisare che nessun gruppo di prigionieri è legittimato a «dialogare la pacificazione» a nome di tutti i prigionieri politici, men che meno a nome della sinistra di classe e delle formazioni rivoluzionarie combattenti. Dall'altro lato è necessario riconoscere l'esistenza di un filo rosso che lega tutta la storia delle BR, da quando è nata questa organizzazione fino ad oggi. Secondo noi bisogna prendere atto che il periodo storico iniziato sul finire degli anni '60, essendo legato indissolubilmente a quella che si presenta come la seconda grande rivoluzione tecnologico-industriale, è tutt'altro che esaurito. E' arrivato il momento, altresì, di ribadire un netto rifiuto nei confronti di ogni forma di avallo alla cosiddetta pacificazione sociale. Quantomeno occorre difendere il diritto al rifiuto dell'ideologia dominante, dell'ideologia borghese nella sua versione «colta» della «post-modernizzazione» o in quella rozza del «post-ciclo storico», e quindi difendere il diritto di tutti coloro che, come noi, non vogliono diventare i consulenti di uno stato desideroso di stabilire il più rigido monopolio della forza e della violenza sulla pelle delle classi sfruttate ed oppresse. Queste nostre considerazioni intendono forse sottovalutare la questione del carcere? No, non è questo il punto, ma il problema della liberazione dal carcere può essere affrontato correttamente solo all'interno di una ripresa della solidarietà proletaria e della lotta contro i programmi della borghesia imperialista, altrimenti non si farebbe che contribuire al processo di pacificazione auspicato dallo stato ed al corrispondente tentativo di addomesticare, e quindi distruggere, il patrimonio accumulato di esperienza rivoluzionaria.
Novembre 2017 Intervento di Gianfranco Zoja
"Questo è uno degli ultimi interventi di Gianfranco Zoja che, purtroppo, è morto nel maggio 2018, poco dopo la sua scarcerazione. Militante delle Brigate Rosse, già incarcerato negli anni 80, ha continuato a contribuire al movimento rivoluzionario, per il rilancio dell'organizzazione finalizzata alla guerra di classe. Per questo visse un ulteriore lungo periodo di prigionia. Gianfranco, indomito e gioioso. Così, noi lo ricordiamo". PTSRI
A VOLTE RITORNANO” non è soltanto il titolo di un fortunato romanzo di Stephen King, ma anche l’aforisma che meglio definisce la ricomparsa, nelle situazioni di movimento, di alcuni personaggi che avevano, in passato, decretato la fine della lotta armata, trattando con lo Stato la propria liberazione attraverso una qualche “ soluzione politica”. Nessuno è immacolato, tantomeno io. Non farò pertanto del purismo. Il motivo che mi spinge a scrivere queste righe è il fatto che molti compagni (soprattutto tra i più giovani) non si rendono conto dell’insidiosità di questa presenza. Più volte mi sono sentito dire: “Queste persone, prima di diventare soluzionisti, hanno fatto grandi cose. Chi sono io - che non ho fatto altrettanto - per giudicarli?” Argomento, questo, che sarebbe ineccepibile, se si trattasse di una questione personale. Io credo invece che pentitismo, dissociazione e soluzione politica siano questioni che investono l’intera classe, e pertanto ogni proletario possa e debba affrontarle, non in termini personali, ma sul terreno della politica. Non faccia scandalo se tratto come un tutt’uno pentitismo, dissociazione e soluzione politica. So bene che esistono – sul piano umano come su quello giuridico- differenze enormi tra chi, per uscire di galera, ha venduto amici e compagni, chi ha solo rinnegato la propria storia, e chi invece è venuto a patti con il nemico di classe. Ma è appunto sul piano politico che questi tre diversi fenomeni rappresentano un continuum, tre diversi momenti di un'unica strategia controrivoluzionaria. Cercherò di spiegarmi meglio. Ad un certo punto negli anni ’70 – in questo paese come in altri – lo scontro tra le classi ha prodotto la lotta armata. Ognuno può pensarla come vuole, al riguardo, ma credo che questo fatto sia fuori discussione. La borghesia imperialista se ne è spaventata, certamente più per la violenza politica del fenomeno che per quella militare. Dapprima impreparata, ha poi via via elaborato strategie controrivoluzionarie sempre più raffinate. In primis, la repressione: militarizzazione del territorio, uccisioni a sangue freddo, tortura, carceri speciali, legislazione d’emergenza ecc. Poi, il tentativo politico di isolare i rivoluzionari dalla propria base, favorendo il lavoro dei revisionisti e la desolidarizzazione all’interno del movimento. Infine, ha agito sulle contraddizioni interne dei combattenti. In una prima fase – quando occorreva battere militarmente la guerriglia – ecco dunque apparire i Peci, coloro che hanno materialmente fornito i nomi dei compagni e gli indirizzi delle basi. In una seconda fase – quando si trattava di battere politicamente la guerriglia – sono comparsi i Franceschini e la loro propaganda di dissociazione. Da ultimo – volendo la borghesia sterilizzare definitivamente il terreno e mettere un’ipoteca sul futuro – sono arrivate le varie ipotesi di soluzione politica, diverse fra loro per il nome, ma uguali nella sostanza. E la sostanza del loro discorso è: “In passato esistevano – in Italia e nel mondo – determinate condizioni oggettive che rendevano possibile, necessaria e giusta la lotta armata; ora tali condizioni non esistono più, per cui dobbiamo prendere atto del mutamento storico e adeguarci a esso. Chi non lo fa, è un pazzo velleitario”. In questo modo i soluzionisti rivendicano il loro passato per delegittimare le lotte del presente e del futuro. Il messaggio che la soluzione politica ha trasmesso alla società è quindi: la lotta non paga. A chiunque fosse ancora tentato di alzare la testa sul posto di lavoro, a scuola o nel quartiere, verrà da pensare: “Ma se perfino quelli che hanno lottato contro questo sistema nel modo più duro ora vengono a patti, a me chi me lo fa fare? Meglio cercare la “svolta” individuale”. Occorre fare alcune precisazioni riguardo la questione delle “condizioni oggettive”. Esse cambiano continuamente, perché continuamente muta la realtà. Ciò che non è mutato è il modo di produzione, cioè il capitalismo, e il rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. Il grado di questo sfruttamento, invece, è enormemente aumentato sia in termini relativi che assoluti. E’ esattamente ciò che rende la rivoluzione necessaria non solo per il proletariato, ma per l’intera umanità. E’ vero che la fine della contrapposizione tra il blocco imperialista e quello socialimperialista ha privato di sbocco strategico molte rivoluzioni e lotte di autodeterminazione nazionale; per questo, dopo il ’91, anche le guerriglie più radicate sono entrate in una logica di trattativa con il nemico, e la parte più lungimirante della borghesia imperialista ha selezionato per questo compito il personale appropriato, gli “specialisti in soluzioni politiche”. Ciò dimostra una volta di più che solo in funzione antiproletaria il capitale riesce a superare la sua natura concorrenziale e agire come classe per se. Lo scopo è chiaro: pacificare le retrovie in una fase in cui lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale è sempre più all’ordine del giorno. Ma è altresì vero che l’aggravarsi della crisi del capitale e la mondializzazione delle condizioni di sfruttamento rappresentano di per sé condizioni oggettive più favorevoli alla rivoluzione di quelle di quarant’anni fa. Rispetto ad allora, nella dialettica tra condizioni oggettive e condizione soggettiva, è invece l’elemento soggettivo cosciente quello che è venuto a mancare, e certo la soluzione politica – con il suo portato di disfattismo e disarmo ideologico – ha contribuito a questa mancanza. Perciò la soluzione politica ha rappresentato una durissima sconfitta per il movimento rivoluzionario e per l’intera classe, tanto più grave perché inferta per linee interne. Difatti non è stata ideata e messa in atto dal nemico, ma dagli stessi ex-combattenti. Il nemico si è limitato a favorire e sfruttare intelligentemente contraddizioni che già esistevano; e non possiamo lamentarci se il nemico fa bene il suo lavoro. Siamo noi – piuttosto – che dovremmo fare meglio il nostro. La comprensione di questo meccanismo penso sia fondamentale per capire la dinamica dello scontro. Le rivoluzioni non sono fatte da degli eroi tutto d’un pezzo, ma da gente comune, piena di ogni tipo di contraddizioni. La rivoluzione (soprattutto quando non dà segno di sé) produce un enorme sfrido di lavorazione: pezzi un tempo utilissimi, oggi da buttare. E si può ben capire la stanchezza di chi ha passato gli anni migliori della propria vita in galera, e il bisogno molto umano di tornare a casa. Credo però che queste persone dovrebbero ritirarsi a vita privata, anziché tornare ad avvelenare i pozzi dei futuri (speriamo) rivoluzionari con le loro velleità di protagonismo. Tanto più che c’è invece chi non si è piegato e in questi lunghi decenni ha tenuto duro: a questi, semmai, dobbiamo guardare. Per concludere: la soluzione politica è una delle armi del già nutritissimo arsenale a disposizione del nemico di classe; passata l’emergenza, è stata riposta ma attenzione non buttata via. All’occorrenza, può essere riutilizzata. Sarà forse un caso se i vecchi soluzionisti cercano di rifarsi una verginità in un momento in cui la crisi del capitale si prospetta sempre più dura e difficile da gestire? Per questo credo non debba essere data loro quell’agibilità politica che vanno cercando.



Intervista a Curcio, Moretti e Balzerani durante la quale ufficializzavano la linea della così detta "soluzione politica". Raccolta da Sergio Zavoli nel 1987 e mandata in onda sulle grandi reti nazionali, in concomitanza con la loro sedicente "campagna di libertà".



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